In questo post è narrata la storia di una mia amica e nonna, Rosa Miriam. E’ lei a raccontarci in prima persona i tratti fondamentali della sua vita, avventurosa e drammatica. Iniziate a leggere, non potrete smettere.
Rosa Miriam
Negli anni Settanta ero una guerrigliera del Fronte per la Liberazione Nazionale Farabundo Martì, nome dell’eroico rivoluzionario che aveva lottato per l’indipendenza del Salvador durante il XIX secolo. Ho detto che ero una guerrigliera, ma forse il termine è improprio: il mio compito era quello di soccorrere i feriti, di identificare e fotografare le vittime dei massacri, di individuare le famiglie dei combattenti che erano stati uccisi. Quindi posso dire che, sì, ero una guerrigliera perché appartenevo al movimento, però io non ho mai ucciso nessuno.
Sono nata in questa piccola nazione dell’America centrale, nella provincia di Usulutàn, da una famiglia modesta, ma veramente fantastica. Eravamo in cinque fratelli e mia madre, ostetrica, decise a malincuore di affidarmi a una famiglia ricca, gli Avilas, per farmi studiare. All’inizio ebbi un forte moto di ribellione, un rifiuto feroce. Solo dopo molti anni capii che mia madre, pur soffrendo terribilmente, mi staccò da sé per amore. Gli Avilas erano una bella famiglia di medici e avvocati, avevano altri figli e mandarono anche me nel miglior collegio del Salvador.
Crescendo, mi accorgevo sempre più della grande ingiustizia che viveva il mio Paese: erano infatti gli anni della dittatura che mise in atto una feroce repressione contro i contadini. I militari, attraverso la cosiddetta riforma agraria, confiscarono tutte le proprietà, lasciando nella totale indigenza migliaia di famiglie come la mia. Sentivo forte la rabbia per queste ingiustizie e a 13 anni decisi di scappare dal collegio perché non sopportavo il contrasto tra la mia vita tranquilla e la miseria e la disperazione che avevo intorno.
In questo mi aiutò Josè: l’uomo che sarebbe poi diventato mio marito incarnava la lotta contro il potere. Era deciso e leale, pronto a dare la vita per il suo ideale, che divenne quindi anche il mio. Spesso ci incontravamo di nascosto, in modo rocambolesco sotto le mura del collegio. La sua famiglia di ricchi farmacisti lo aveva destinato al seminario, ma lui se n’era andato e frequentava l’università. Ci fidanzammo, poi ci sposammo di nascosto in un rifugio e ci stabilimmo a casa di uno zio.
Con lui iniziai a praticare la lotta sindacale attraverso la protesta e la denuncia, ma sempre più spesso ci trovavamo a contare i corpi dei nostri amici straziati dalle torture. Il dialogo, quindi, non funzionava: decidemmo perciò di intraprendere la lotta armata.
A 15 anni ebbi la mia prima figlia, Ana. Era il 1974. Partorii in ospedale, non avevo con me nessuno della famiglia, cosa molto strana in Salvador, dove la comunità si prende sempre cura delle puerpere. Mio marito vide la bambina dopo tre mesi, molto emozionato. Mi disse: ”Ana ha gli occhi del Tigre”: Tigre era infatti il suo nome di battaglia, a causa del colore dell’iride e del suo sguardo felino.
Nonostante i problemi, continuavamo a studiare entrambi: io frequentavo la scuola per infermieri e lui era iscritto a giurisprudenza. Per guadagnare qualcosa Josè insegnava e io accudivo persone anziane. Continuavamo anche a lottare con rappresaglie ed eravamo ricercati per questo motivo; iniziarono allora gli anni più difficili di tutta la mia vita. Avevo affidato la bambina a mia madre, io dovevo spostarmi continuamente, di notte; spesso rimanevo paralizzata dalla paura, per esempio quando sentivo i passi degli uomini degli squadroni della morte accerchiare la casa, oppure i carri armati sempre più vicini, pronti ad abbattere le abitazioni.
Durante la militanza nacque Paco. Per partorire Paco andai a piedi in ospedale, percorrendo cinque chilometri con le doglie. Fu un parto rabbioso, desideravo avere lì mio marito o almeno qualcuno della mia famiglia; invece ero ancora più sola che mai.
Rimasi quindi incinta di Luz e durante la gravidanza aiutai Josè a scappare: la guerra era ormai esplosa e lui era davvero in pericolo. Ci lasciammo con un abbraccio fortissimo e un bacio struggente: ebbi solo il tempo di comunicargli che aspettavo il nostro terzo figlio che lui non avrebbe mai visto. Josè diede uno sguardo breve ai bimbi e poi si girò di scatto, piangendo. E’ l’ultima immagine che ho di mio marito, perché non ci saremmo mai più ritrovati. Partorii Luz da sola, in casa, con lo stato d’assedio, senza luce. Avevo studiato da infermiera e alcune nozioni le avevo imparate da mia mamma ostetrica. Era tutto terribile, doloroso, ero devastata anche nello spirito ma, nonostante questa situazione di morte, desideravo moltissimo generare una vita. Alla nascita, Luz pesava 1800 grammi, il giorno dopo fui costretta a portarla a piedi in ospedale facendo attenzione a non farmi riconoscere. Durante quel ricovero, mi addormentarono e senza dirmi nulla mi chiusero le tube. Seppi poi che lo fecero considerando la mia giovane età e la situazione che stavo vivendo.
Iniziai a lavorare all’ospedale militare, sempre sotto falsa identità. Una notte vennero a prendermi, erano gli uomini dello squadrone della morte, volevano sapere dove fosse nascosto Josè. Mi spogliarono, mi bendarono, mi violentarono, mi picchiarono, mi puntarono il mitra contro le tempie. Continuarono così per 15 giorni, ma non parlai. Vidi anche le cose terribili che fecero ad altri e che non riesco neanche a raccontare. Mi salvai solo perché mi credettero morta. Durante i giorni della tortura, chiudevo gli occhi e vedevo il viso dei miei bambini, sempre, continuamente. Fu una visione che non mi abbandonò mai, mi alimentavo di questo, superavo il male che mi infliggevano solo pensando a loro. E’ incredibile come l’immagine dei miei figli fosse così codificata nella mia mente.
Dopo che mi fui lentamente ripresa dalle violenze, mi arrestarono. La mia famiglia affidataria venne a saperlo e pagò per farmi uscire di prigione. Fu allora che i militari diedero fuoco alla casa dove abitavo, ma mi salvai perché avevo riconosciuto il rumore dei passi degli uomini dello squadrone. A mezzanotte feci appena in tempo ad uscire di nascosto, attraversai il filo spinato e dall’esterno vidi esplodere la casa. Era il segnale inequivocabile che dovevo sparire anch’io.
Consegnai i bambini a mia madre e, grazie al cognome italiano ereditato da mio nonno ligure emigrato in Salvador, potei raggiungere l’Italia come rifugiata politica. Partii senza alcun bagaglio, neppure una foto dei miei figli, l’unico vestito era quello che indossavo; pesavo 32 chili.
A Milano mi aiutò un’amica italiana; vissi con lei tre anni, mentre lavoravo per molte ore in una casa privata. Era il 1981. L’anno prima, il 24 marzo, nella chiesa della Divina Provvidenza, avevano assassinato la migliore persona che conobbi in quegli anni, e cioè monsignor Oscar Romero. Con quell’omicidio ogni speranza era distrutta! Guadagnavo centomila lire al mese che mandavo sotto falso nome in Salvador per i miei bambini: il mio pensiero era solo per loro.
Seppi che mio marito, aiutato dai cubani, aveva raggiunto la Russia, ma che in seguito era ufficialmente morto. Una persona straordinaria che aveva a cuore la mia vicenda, decise allora di fare per me una cosa eccezionale, senza secondi fini: mi sposò e potei così far venire in Italia i miei bambini. Tra me e questa persona non ci mai fu nulla di sentimentale: ci siamo voluti bene come fratelli. Quando lui si fidanzò, divorziammo e quindi poté sposarsi. Siamo tuttora grandi amici e tra lui e i miei figli c’è un rapporto straordinario.
Quando i miei figli arrivarono a Milano ero felice perché non li vedevo da ben tre anni, ma non fu un periodo semplice nemmeno questo: i bambini erano traumatizzati, con problemi fisici e psicologici, e presto arrivarono a odiare la lingua spagnola perché ricordava loro quel periodo di grande sofferenza. Mi rassegnai ad una vita da vedova, anche se ero ancora giovane: i ragazzi frequentavano le scuole e io lavoravo tantissimo per non far mancare loro il necessario. Dopo il diploma ognuno di loro ha trovato una sistemazione e da qualche anno anche mia madre vive in Italia. Io ho conosciuto un uomo più giovane di me, ci siamo sposati e ora viviamo a Stresa, sul Lago Maggiore.
Ma qualche anno fa, in televisione vidi un documentario con interviste sulla lotta armata in Salvador e a un certo punto riconobbi Josè, il Tigre: impossibile confonderlo. Allora era vivo! Telefonai alla Rai, mi rivolsi ad Amnesty International e venni a sapere che mio marito non era morto, ma, nonostante le mie continue ricerche, non riuscii a rintracciarlo. Finché, nel cuore della notte, sono stata svegliata da una telefonata. Era il Tigre che, dopo anni di ricerche, aveva finalmente ottenuto il mio numero di telefono. Credevo di morire dall’emozione; non riuscivo a parlare, ero paralizzata dallo stupore, mi sembrava di avere un incubo. Il Tigre mi ha detto che vive in Svezia e che desidera tantissimo vedere me e i nostri figli: appena vorrò lui sarà pronto a raggiungermi. Ho parlato con i miei figli, ma loro, e soprattutto Paco, non vogliono incontrarlo perché lo ritengono responsabile di quanto hanno subìto in questi anni. Per me è un enorme dispiacere e non so più come fare per incoraggiarli a questo incontro. Josè non ha neppure mai visto Luz e io ho una tremenda voglia di incontrarlo. E’ terribile dover negare a un padre l’incontro con i suoi figli. Ecco che cos’è la guerra, ecco che cosa significa credere a un ideale di uguaglianza e di giustizia. Che prezzo orrendo devi pagare per cercare di salvare il tuo popolo, per riconquistare ciò che ti apparteneva!
Non so come finirà questa storia. L’unica certezza è quella di essere riuscita a tenere insieme i miei figli che si vogliono bene e si aiutano. Io sono ormai nonna, ho tre meravigliosi nipoti che stanno crescendo splendidamente. Per le violenze subite ho perso gran parte delle memorie relative alla mia infanzia, ma quando erano piccoli li addormentavo con una filastrocca che ricordo ancora e che fa così:
La loba, la loba le comprò al lobin
un calzon de seda roja e un gorro bonito,
ahora se va de paseo llevando en sus brasos su hijito.
La lupa, la lupa, ha comprato al lupacchiotto
dei pantaloni di seta rossa e un bel berretto,
ora va a spasso portando in braccio il suo figlioletto.
Questa è Rosa Miriam, in un ritratto di Paolo Sacchi.
Questa invece è un’altra bella foto, sempre di Paolo Sacchi, di Karla, nipote di Rosa Miriam.
Se volete leggere questa e altre storie di donne e i loro racconti sulla maternità potete trovarle in un piccolo libro, Sopra il tavolo della cucina, donne che intrecciano storie, edizioni Interlinea.
? quAnto a sofferto però poi alla fine triunfa la felicità ? complimenti
grazie! 🙂